• Santuario, Parrocchia, Fondazione

Santa al quadrato - Intervista a Rosamaria Scorese sorella della serva di Dio Santa Scorese

Ecco l’icona di una giovane donna straordinariamente ordinaria e ordinariamente straordinaria. Vittima di stalking e di femminicidio. Santa di nome e di fatto.

Santa al quadrato


Intervista a Rosa Maria Scorese, sorella di Santa, a cura di Marika Gala, Giulia Suriano, Dario Berardi, Giuseppe Deruvo, Chiara Pizzulli, Luisa Vacca, Claudio Labianca, Alessandra Valerio, Giovanni Vacca e Renato Brucoli: componenti il LABoratorio di giornalismo e multimedialità del Santuario Santi Medici di Bitonto.

Un flashback per cominciare: cosa è accaduto la sera del 15 marzo 1991?
Generalmente evito di raccontare i fatti: mi procurano molta sofferenza! Negli incontri pubblici affido questo tipo d’introduzione ad Alfredo Traversa, grande innamorato di Santa, che ben conosce la sua biografia.
Comunque sia, la sera del 15 marzo 1991, Santa termina un percorso che oggi diremmo di stalking: una persecuzione durata tre anni. Quella sera, Santa era uscita per andare a trovare una famiglia che assisteva. Se ne occupava dal punto di vista delle necessità materiali e sotto il profilo spirituale. Era uscita per andare da loro, per poi frequentare l’incontro di catechesi presso la chiesa matrice di Palo del Colle, con i giovani di Azione Cattolica.
Gli impegni di quella sera costituiscono il suo testamento spirituale: sostegno umano, carità fattiva – tipica di una Chiesa che si rimbocca le maniche – e formazione cristiana.
Alle 22.10 gli amici chiedono a Santa se intende essere accompagnata a casa, come solitamente avveniva. Quella sera, però, ha detto di no, ironizzando sul fatto che il peggio che potesse accaderle, sarebbe stato di trovare sul percorso Giuseppe, suo stalker. L’attendeva infatti sotto casa.
Io ero appena andata via dall’abitazione dei miei genitori con mia figlia Simonetta fra le braccia. Era una sera uggiosa, quaresimale. Mamma, dal pomeriggio, avvertiva una grande tristezza e piangeva senza un motivo.
Sono uscita dal portone di casa dei miei genitori e non l’ho chiuso. Di lì a poco, appena rientrata nella mia abitazione, è arrivata la telefonata con cui mio marito è stato informato di qualcosa di grave: Santa era stata accoltellata dal suo stalker.
In realtà Giuseppe e Santa non si conoscevano affatto, solo che tre anni prima si erano incrociati casualmente in via Sparano, a Bari. Da allora Santa non se ne è più liberata. L’unica cosa che li accomunava era che Giuseppe aveva tentato di far parte di un gruppo vocazionale, ma era stato allontanato. Forse la Chiesa avrebbe dovuto aiutarlo. Da allora lui ha deciso di accanirsi contro le donne credenti.

Chi è stata la prima persona a intervenire?
Mio padre, che è un poliziotto, si era affacciato dal balcone di casa, per avere conferma che fosse Santa a rientrare, e aveva assistito alla scena del femmincidio di sua figlia. Si era dunque precipitato, per fortuna senza prendere con sé la pistola di ordinanza, lungo le scale di casa fino all’ingresso, dove ha divincolato il corpo di Santa da quello del suo assassino, che ancora infieriva con un coltellaccio, dicendo che avrebbe dovuto terminare il suo compito e poi si sarebbe ammazzato anche lui. Sono passati 26 anni, ma lui è ancora vivo.
Immediatamente dopo, mamma, anche lei affacciatasi sulla scena del crimine, è risalita in casa per chiamare il 113. Prima che arrivasse l’ambulanza, però, Santa è stata caricata in macchina da mio marito e da uno zio, che a velocità folle l’hanno portata al Policlinico di Bari.
Nel tragitto Santa, consapevole di quanto accadeva, ripeteva che aveva solo 23 anni, e non poteva morire in quel modo. Al pronto soccorso ha continuato a raccontare quanto successole e ciò che avvertiva sul suo corpo. Informava i medici delle ferite che le erano state procurate: aveva frequentato un anno medicina ed era consapevole di ciò che le stava accadendo.
Ho incontrato il suo sguardo in ospedale, tra il pronto soccorso e la rianimazione, e le ho chiesto di riconsacrarci entrambe alla Milizia dell’Immacolata, alla quale ci eravamo consacrate qualche anno prima. Santa mi ha fatto cenno di sì con gli occhi. È stato l’ultimo cenno d’intesa che ci siamo scambiati. Dopo tre tentativi di rianimazione, è morta collassata quella notte stessa. È sembrato così concludersi, nella disperazione, un percorso di crescita caratterizzato dagli ideali di vita più belli e più grandi.

Quindi si sono svolti i funerali...
Io, tipica wonder woman che aveva condiviso un sacco di cose con Santa, ho voluto che lei partisse per l’ultimo viaggio con un abito rosso.
Quando si parla di ragazze giovani, normalmente si pensa all’abito bianco, da sposa. Santa lo aveva indossato di fatto per tutta la vita, a sottolineare la voglia di stare con Dio. Ho così voluto che in quella circostanza indossasse l’abito di colore rosso, simbolo di amore e di passione per quanti avevano avuto bisogno del suo aiuto.
Un po’ come accaduto a san Massimiliano Kolbe, che si era sacrificato in favore di un padre di famiglia. Apparsagli in sogno l’Immacolata, che gli chiedeva di scegliere tra due corone di fiori, l’una bianca e l’altra rossa, lui le ha prese entrambe.
Allora mi sono detta: se san Massimiliano le ha prese entrambe, e mia sorella ha finora indossato solo l’abito bianco, non può che vestire, ora, l’abito rosso per presentarsi davanti al Signore.

Tu e la tua famiglia, come avete reagito al fatto luttuoso?

Dopo due giorni dalla morte di Santa, si è svolto il funerale e sembrava veramente finito tutto. Nel mio cuore, in realtà, ogni cosa è cominciata proprio allora, tanto da arrabbiarmi con mia madre che, presa da sconforto, ha cominciato a buttare gli oggetti di Santa. Io gliel’ho impedito con decisione, perché pensavo che avessimo ancora bisogno di avvertire in ogni modo la sua presenza.
Mi sono poi venuti in mente i tanti momenti in cui Santa scriveva il suo diario, che custodiva gelosamente e non ci permetteva di leggere: doveva esserci qualcosa di speciale in quelle pagine. Lì ho trovato la chiave di volta della sua vicenda esistenziale. Da quei diari è nata un’altra storia.

Com’è cambiata la tua vita, e quella della tua famiglia, dopo i fatti drammatici?
La nostra vita è cambiata decisamente! All’inizio eravamo tutti disperati. Una mamma che perde la figlia, è una mamma che non vive più. Mio padre, poi, è sempre stato un po’ introverso. Credo provasse un grande senso di colpa: un poliziotto, un servitore dello Stato che non era riuscito a salvare la propria figlia! Quest’angoscia se la porterà con sé fino alla morte!
All’epoca non veniva offerto alcun aiuto psicologico ai parenti delle vittime. Abbiamo dunque usufruito solo dell’aiuto del cuore: del nostro cuore che batteva all’unisono, e di quello degli altri che ci hanno voluto bene.
La nostra vita, comunque, è stata stravolta. Al tempo stesso Santa ci ha offerto anche un grande aiuto: intanto creando coesione in famiglia, poi facendo in modo che mio padre si riavvicinasse alla fede. Da noi si dice che “dal guasto è venuto l’aggiusto”. Tanto che oggi il motivo serio per continuare a vivere con impegno, è proprio lei, Santa.

Cos’è cambiato nella società, da allora a ora, nell’“amore malato” fra l’uomo e la donna?
Non sono capace di esprimere un parere tecnico, però ho incontrato e seguito così tante storie nel corso degli anni da poter dire la mia: malgrado alcuni miglioramenti in ambito legislativo e nel campo dell’informazione, ritengo che la situazione sia addirittura peggiorata!
Se non imposteremo una concreta opera di formazione delle coscienze, soprattutto presso le nuove generazioni, non riusciremmo a promuovere un nuovo modo di pensare, nuovi sentimenti, una cultura nuova nell’approccio con la femminilità.
Nella società, poi, da un lato sono sorti molti centri antiviolenza, che hanno rimesso la macchina in movimento; dall’altro non sono sensibilmente diminuite le vittime dell’“amore malato”. L’informazione e la formazione risultano decisive.

Quanto maschilismo cogli ancora nella realtà?
È tanto presente, e alcune volte credo che siamo anche noi donne a incrementarlo, specie quando favoriamo certi stereotipi. Ad esempio, quello della donna tutta corpo, così frequente nelle campagne pubblicitarie. In questo caso il maschilismo si rafforza e diventa prepotente anche in una società “avanzata” come la nostra.

Che significato hanno oggi, per te, parole come stalking, femminicidio, violenza sulle donne?
Sono parole forti, che hanno un significato pesante. Termini come stalking e femminicidio mi fanno pensare alla necessità di un percorso di maggiore consapevolezza. Però è sorprendente notare quanto siano piccoli i progressi nell’opinione pubblica, nonostante i tanti corsi, anche universitari, di sensibilizzazione. Nell’educazione manca il rispetto per il prossimo, soprattutto per le donne. Solo quando l’uomo imparerà a rispettare l’altro da sé, vocaboli come femminicidio e stalking potranno diventare evanescenti.

Quali i modi per impedire che si riproducano i fatti ricordati?
Come dicevo, intanto occorre inaugurare dei percorsi educativi. Poi, chi sta per compiere gesti insani, dovrebbe sapere che non la passa liscia! È necessaria, cioè, la certezza e la rapidità della pena per garantire ai cittadini l’idea di uno Stato che si attiva veramente e con prontezza contro ogni deriva violenta.
Come giudichi, sotto il profilo operativo, la legge del 2009 contro lo stalking?
Complessivamente direi che è una buona legge, nonostante alcune falle. Considera stalking il comportamento molesto, ossessivo, persecutorio che si manifesta con telefonate e sms a tutte le ore, attenzioni ripetute, appostamenti, regali non graditi, e che genera nella vittima uno stato di ansia, paura o timore per la propria incolumità, e la costringe ad alterare le abitudini e scelte di vita. Prevede che la vittima di stalking possa rivolgersi al questore per fare ammonire l’autore della molestie, ottenendo protezione e sostegno, anche psicologico; che il giudice possa ordinare la cessazione della condotta pregiudizievole e disporre il divieto ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima. Inoltre inasprisce fortemente le pene nei confronti di chi effettua ossessive invadenze nella vita privata altrui. Nulla di tutto questo esisteva ai tempi di Santa!

Cosa suggeriresti sul piano comportamentale a chi subisce oggi lo stalking? Se ne può venir fuori?
Il modo migliore per affrontare questa difficoltà è di parlarne, di fidarsi di chi ha esperienza. Ci sono numerose associazioni, soprattutto in Puglia, ma anche parrocchie e centri attivi a cui rivolgersi, oppure i carabinieri e la polizia.
Con il silenzio non se ne viene fuori. Non si esce dal tunnel neppure andando all’“ultimo appuntamento” che lo stalker chiede abitualmente alla propria vittima, non per chiarire alcunché ma per fare del male.

Come difendersi dal cyberstalking, vale a dire dallo stalking mediante l’uso della rete?
Ho sentito spesso parlare di cyberstalking dai funzionari di Polizia postale. Loro ritengono che i giovani siano i più esposti, perché la dipendenza dai social non permette di comprendere la differenza tra il reale e il virtuale, tanto da lasciarsi prendere la mano e non riuscire a capire quando qualcuno ti sta tirando nel gorgo dello stalking.

Rosa Maria, com’era Santa? Come si caratterizzava la sua umanità, la sua sensibilità femminile? Qual era il suo sistema di valori?
Santa era una peperina, non dobbiamo immaginarla con l’aureola in testa. Santa è la ragazza della santità quotidiana, ordinaria. Sensibilissima e capace di amare chi vive in difficoltà. Era una ragazza provvista di ideali e con una visione valoriale della vita. Fin da piccola portava a casa i compagni di scuola più bisognosi per aiutarli nello studio.
In lei si leggeva un’umanità eccezionale, che ha la chiave di volta nel Vangelo. Abbiamo apprezzato una maturità straordinaria con la lettura dei suoi diari. Testimoniano quanto fosse profondo il suo modo di sentire. Ad esempio si chiedeva come riuscire a fare, della propria vita, un dono d’amore al Signore. Direi così: una ragazza straordinariamente ordinaria e ordinariamente straordinaria.

A proposito dei diari di Santa, su quali espressioni ti sei soffermata di più?
Questa è la terza volta in 26 anni che i diari escono da casa dei miei genitori (e mostra gli originali, n.d.r.): la prima volta quando mi hanno chiamata per una trasmissione televisiva a Roma, poi quando sono stati chiesti dalla Postulazione, e infine oggi.
I diari avrei voluto bruciarli, nell’immediato. Nei giorni più a ridosso del dramma, la mia mente era attraversata ogni momento da Santa; così mi sono ricordata dei diari che non ci faceva leggere. Ho infilato il braccio nel suo armadio, dove sapevo che li nascondeva, e li ho presi, li ho sfogliati. Mi sentivo continuamente Santa addosso, perché lei non voleva farceli leggere quando era in vita, figuriamoci dopo, pensavo. Per questo volevo bruciarli!
Però quel giorno è venuto a casa don Tonino Lucariello che mi ha dato della pazza. Mi ha chiesto di leggere i diari, e se non ci fosse stato scritto nulla di particolare, allora mi avrebbe consentito ciò che desideravo farne.
Invece erano importanti, e sono stati pubblicati: prima parzialmente, dopo l’opera di ripulitura di certe informazioni che riguardavano la famiglia in senso lato; quindi la Curia barese, a nome di mons. Mariano Magrassi, ci ha chiesto di pubblicarli per intero, poiché considerati autentici carteggi d’amore.
Nei diari, infatti, ci sono pagine d’incomparabile bellezza per la vita e per il Signore, ma anche grande dolore, specie nelle pagine in cui Santa parla dello stalker. In particolare nelle note del 6 febbraio 1988, giorno del suo 20° compleanno, lo stesso in cui subisce la prima aggressione. Si sente piccola, Santa, non certo in senso evangelico, ma perché posta di fronte a una violenza inarrestabile. Poi c’è la pagina del 6 febbraio 1989, in cui Santa ricorda tutto il dolore e lo sconforto che prova ripensando all’aggressione dell’anno precedente, tanto da scrivere di desiderare di morire. Nonostante tutto, però, ringrazia il Signore per averle dato la vita e la forza di andare avanti.
Mi sono soffermata, inoltre, sulle pagine in cui Santa si presenta come un vero e proprio canto di lode a Dio, ed esprime tutto il suo amore per Lui paragonandosi a una vela, a un’aquila e infine alla musica, con il desiderio di poterLo raggiungere.
Grazie alle pagine dei diari, ho compreso in pieno la profondità e la straordinaria maturità di Santa, che non tutti riescono diversamente a cogliere.

Santa è morta giovane. Quali messaggi lancia ai giovani?
Messaggi di vita, di speranza, di tenacia, di amore, di bellezza, di coerenza, di dono agli altri, di mancata resa. Ci invita a essere persone con una volontà di ferro. Ci introduce a un percorso d’amore con la A maiuscola, come il suo nei confronti di Dio.
A proposito della sua persecuzione, Santa scrive a don Tonino Lucariello, in uno degli ultimi bigliettini: “Sappi che qualunque cosa mi succederà, io ho scelto Dio”.

Santa di nome e di fatto. C’è dunque una buona notizia nella sua vicenda drammatica?
Di buone notizie ce ne sono tante: la principale è la sua chiamata alla santità, che ha saputo vivere in modo speciale.
Lei, che si chiamava come la nonna, ha il destino scritto nel nome. Tanto che il postulatore della causa di beatificazione, pensando al suo vissuto d’amore, e non solo alla testimonianza del sangue accompagnata dal perdono, dialogando spiritualmente con lei, un giorno ha esclamato: “Quando andrai in Paradiso, come ti chiameremo? Santa al quadrato?”. C’è anche una buona notizia nell’attenzione della Chiesa a una figura femminile.

Cosa hai provato all’apertura del processo di beatificazione?
È avvenuto a conclusione della Giornata diocesana dei Giovani del 1998, in piazza del Ferrarese a Bari, su indicazione di padre Graziano Sala. A distanza di circa 19 anni posso dire che laddove terminano le storie di ragazze morte per mano assassina, quella di Santa ricomincia.

Forse perché ha saputo perdonare. A proposito: perché l’ha fatto? E tu? E la tua famiglia?
Santa ha saputo perdonare perché ha vissuto il Vangelo con intensità. Per lei la parola di Dio è amore puro, da testimoniare con coerenza.
Per quanto mi riguarda, non nascondo che all’inizio ero un po’ arrabbiata, però ho seguito un percorso di discernimento. Intanto mi sono chiesta cosa avrebbe fatto Santa al mio posto, e Santa ha perdonato; poi, da credente, ho considerato che forse si è compiuto con lei un disegno la cui logica mi trascende. Camminando con Santa, ho così imboccato un percorso di resilienza che mi ha portato al perdono. Peraltro ho considerato che Giuseppe, l’aggressore, era una persona fragile, malata, e come tale da tutelare piuttosto che divenire oggetto d’invettiva. Mi è parso come l’ultimo anello di una catena di grandi omissioni... Questo non significa che, se lo incontro, sto bene! Però, seppure a fatica, l’ho perdonato. Mamma e papà, invece, portano un peso diverso dal mio: per età, condizione, esperienza. Per una mamma, come ho detto prima, la morte di un figlio o di una figlia equivale alla propria vita spezzata. In mio padre, che ha lavorato in Polizia, è rimasta l’angoscia di non essere riuscito, da addetto ai lavori, a impedire l’accaduto.

Ci sono stati, dopo i fatti drammatici, dei contatti fra l’aggressore e la tua famiglia? Di quale tenore?

Durante il processo, aspettavo il mio secondo bambino, quindi i miei genitori mi hanno sottratta ai luoghi del giudizio. Loro, invece, hanno incontrato Giuseppe, seppure per poco tempo, in primo grado. Non si è trattato di un vero e proprio contatto, anche perché lui ha continuato a farneticare, vantandosi di aver donato una martire alla Chiesa, e di aver reso un servizio promuovendo la figura di una seconda santa Maria Goretti.
C’è anche che, negli anni, Giuseppe ha continuato a scriverci lettere dall’Ospedale psichiatrico di Aversa. Cinque anni dopo la morte di Santa è riuscito a farsene pubblicare una sull’inserto “D” di Repubblica, nella rubrica di Umberto Galimberti, e subito dopo nella rubrica “lettere al direttore” de La Gazzetta del Mezzogiorno, in cui si firmava addirittura “Santa”, e fingeva di scrivere dal cimitero di Palo del Colle...
In altre lettere diceva di volerci restituire Santa attraverso una strana teoria d’ingegneria genetica, in base alla quale avrebbe fecondato alcuni frammenti di DNA tratti dai resti mortali di Santa, combinandoli con altre sostanze tratte dall’organismo di mia madre. Una cosa allucinante! Abbiamo avuto di nuovo paura per quanto poteva accaderci. Stando così le cose, speriamo rimanga alla larga anche in seguito.

Quale rapporto c’è, secondo te, fra perdono, giustizia e libertà umana?
La giustizia, se vissuta in pienezza, dovrebbe garantire la libertà, e sfociare quasi naturalmente nel perdono. Sono fattori che dovrebbero prendersi per mano. Ma non sempre è così... Dovremmo fare in modo che fosse sempre così.








Rosamaria Scorese con Renato Brucoli, don Antonio Stizzi e alcuni ragazzi che partecipano al Laboratorio

Salva Salva Salva Salva Salva Salva Salva Salva Salva Salva Salva